Dei disastri e di altre lacrime

Non c’è differenza tra Francois, Simone, Aylan e Mustafà.

Vite spezzati, bambini dai destini incrociati, sorrisi e speranze spenti per sempre.

Per colpa di un attentato terroristico in Francia, per colpa di un terremoto devastante a Amatrice, a causa di un naufragio nel Mediterraneo, per via di un bombardamento aereo in Siria. La violenza e la barbarie dell’uomo, la sua incapacità di garantire la sicurezza contro gli eventi naturali, la sua brama di potere e ricchezza, l’ottusità nel non riuscire a prevedere cause e effetti, reazioni di segno uguale e contrario. Facile pontificare, semplice analizzare stando comodamente seduti davanti a una telecamera, facile fino a quando la tragedia non ti colpisce, non ti tocca da vicino. In questo maledetto tempo fatto di disastri e drammi collettivi e individuali, spesso non si riesce a cogliere e decodificare l’orrore comune che invero ci costringe a fare i conti con una realtà che ha poco di casuale e ineluttabile. Neppure quando si tratta di un terremoto come quello che ha devastato il centro Italia. E che, nel 2016, ha fatto gli stessi danni e mietuto le stesse vittime di quello che nel 1600 aveva colpito quei medesimi territori. Quattro secoli durante i quali l’umanità si è evoluta, ha ottenuto grandi scoperte in tutti i campi della medicina, della scienza, della tecnologia, della sicurezza. Quattrocento e passa anni durante i quali si è continuato a morire come se nulla si potesse fare, come se alluvioni e terremoti fossero da ascrivere a punizioni divine o segnali trascendentali.

Nella tragedia immane, questo è forse uno degli aspetti più inquietanti. Perché diventa necessario per poterci autoassolvere pensare che le cause siano esterne, perché è fondamentale individuare un colpevole o dei responsabili (fossero pure entità ultraterrene) verso i quali scaricare sensi di colpa e pseudo crisi di coscienze. Per certi versi, molto più consolante se il terremoto venisse rivendicato dall’Isis, per lo meno chi è preposto al controllo idrogeologico del territorio potrebbe pilatescamente lavarsene le mani.

Qual è il denominatore comune, il filo di morte che unisce quei bambini? Francois, Simone, Aylan, Mustafà? E’ l’insipienza, il cinismo, l’egoismo, l’assuefazione al fuorviante concetto di destino. La malasorte di essere governati da dinamiche perverse figlie di personaggi inadeguati. Chi si ricorda più del disastro ferroviario di un mese fa in Puglia? Che provvedimenti sono stati assunti? Nella logica del frullatore mediatico, esiste una frattura netta tra queste classi dirigenti e i cittadini: tra chi sarà pronto a non ricercare soluzioni, incapace come al solito di qualsiasi scatto di iniziativa costruttiva in fatto di prevenzione, e chi animato da principi di solidarietà e umano sentimento di collaborazione, darà il suo prezioso personale contributo. Volontari che scavano tra le macerie, che accolgono i profughi, che alleviano le sofferenze degli immigrati, che contrastano il terrorismo spacciato per religioso con i principi di multietnicità e convivenza civile. Ergendosi a esempio di moralità, a regola di comportamento, a emblema di disinteressata fratellanza.

Non riesco a non commuovermi assistendo inerme alla sistematica e cadenzata distruzione di vite umane. Non riesco a sopportare il peso della vista del corpo esanime di un bambino. Non ce la faccio. Perché sarebbe potuto capitare a me, a noi. Perché Francois, Simone, Aylan e Mustafà sono miei figli e miei fratelli. E nel terribile gioco di questa roulette russa, nessuno è immune, nessuno può sentirsi estraneo. Avanti il prossimo, fino a un’altra bomba, a un altro massacro, a un terremoto o un’alluvione. Con l’amara certezza, come soleva ripetere Gabriel Garcia Marquez, che terremoti e alluvioni sono come il Fondo Monetario Internazionale: colpiscono sempre i più poveri.

Tutto è acre e salato, come il sapore delle lacrime.