Ancorché subissati da critiche e giudizi spesso distruttivi, soprattutto in relazione all’uso che se ne fa, è innegabile che i social network abbiano modificato in modo profondo le nostre vite. Il palcoscenico di internet è diventato uno sfogo: in rete vomitiamo di tutto, immagini e video tratti da momenti strappati alla routine familiare, massime e aforismi che manco frate Indovino, foto di viaggi, di animali, di automobili, di sport, nonché le immancabili ricette di cucina.
E scriviamo tanto, forse troppo.
Tuttavia, uno dei meriti da ascrivere ai social è proprio quello di aver sviluppato una tendenza irrefrenabile al commento, alla riflessione, alla considerazione su tutto ciò che si verifica a livello interplanetario, spaziando con disinvoltura dalla filosofia all’arte, dalla poesia alla politica, dal costume alla cronaca. Sotto certi aspetti, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, il fenomeno è da valutare positivamente, dacché le persone risultano stimolate ad informarsi, aggiornandosi di continuo in modo da esprimere per iscritto la propria opinione, disvelando così il proprio modo di essere, i pensieri e le idee. Non è un fatto da sottovalutare: conosco gente che non si cimentava nello scritto dai tempi della scuola, fatta eccezione per la compilazione di qualche bollettino postale o della lista per la spesa.
Certo, argomentare in forma compiuta è un’altra cosa ma, in fin dei conti, i social non richiedono questo. E qui veniamo all’aspetto mezzo vuoto del bicchiere: l’attività frenetica in rete si estrinseca per lo più nella sintesi, intesa come semplificazione del tema da trattare. Non mi riferisco, ovviamente, alle dissertazioni sulle nostre attività personali, dove al contrario ci dilunghiamo con dovizia di particolari, bensì alle opinioni che esprimiamo su quanto si verifica nel mondo. Infatti, si badi bene, il concetto di sintesi non riguarda il numero di parole utilizzate o la lunghezza del pensiero espresso, ma piuttosto l’appartenenza semplicisticamente dichiarata con la quale ci si approccia ad un dato argomento.
La metafora del bicchiere cade appunto a pennello: mezzo pieno o mezzo vuoto, comunque tutto d’un fiato. Si analizza con l’accetta tutto e tutti, rilasciando giudizi il più delle volte tranchant: buoni o cattivi, giusto o sbagliato, sì o no. Qualcuno argomenta e spiega, molti si lasciano trascinare in un vortice di parole in piena, tutti inevitabilmente cascano nel tranello del “fronte”, ovvero da questa parte o da quell’altra, pur in assenza di robuste premesse. Nelle ultime settimane abbiamo assistito ad un concentrato del “con” e del “contro”, su temi (l’elezione di Trump, per esempio) che meriterebbero riflessioni più articolate. E domani, nemmeno a farlo apposta, sarà celebrata la giornata per eccellenza del “pro” e del “contro”.
L’evento storico più importante, dal mio personale e opinabilissimo punto di vista, si svolgerà a Santiago de Cuba, dove sarà dato l’ultimo saluto a un personaggio che considero tra i più importanti e significativi del cosiddetto “secolo breve”. Fidel Castro ha rappresentato, nella mia formazione politica e culturale, una figura di rilievo, fonte di studio e ispirazione. Sono stato a Cuba nel 2000, l’ho visitata da cima a fondo, ho toccato con mano e apprezzato la straordinaria dignità di un popolo che amava all’ennesima potenza il suo “Lider Maximo”. Conservo ricordi indelebili, certi profumi, tanti volti, colori e atmosfere irripetibili. Ricordo, per citare uno dei tanti aneddoti, che un turista canadese, in viaggio di piacere con la moglie, ebbe un malore dalle parti di Santa Clara, nei pressi del gigantesco mausoleo del Che. Alcuni residenti lo accompagnarono in una farmacia-ambulatorio, lo straniero fu visitato e curato, poi, quando lo stesso mise mano al portafoglio per pagare la prestazione sanitaria, gli fu risposto: “No senor, aquì la atenciòn sanitaria es gratuita”, qui la sanità è gratis.
La Cuba di Castro, piaccia o no, è tra i primi Stati al mondo nella ricerca medica con oltre 30mila specialisti inviati all’estero negli angoli più poveri della terra, Cuba ha una mortalità infantile inferiore rispetto a Washington, per la precisione del dieci per mille (pari a quella della Svezia), e c’è un medico ogni 200 abitanti. Eppure Cuba è un Paese del terzo mondo, ma la percentuale di alfabetizzazione è elevatissima, come dimostrano i più di 300mila insegnanti su 11 milioni di abitanti, e dove l’età media è di 75 anni contro i poco più di 50 del continente latino-americano. E Cuba ha sopportato cinquant’anni di embargo, di isolamento, di campagne diffamatorie, di tentativi più o meno noti di colpi di Stato e di attentati alla persona di Fidel.
Sui social e sui maggiori quotidiani nazionali ho letto di tutto, complici i festeggiamenti della mafia di Miami, con un’approssimazione e un livore senza precedenti. Sicuramente più del mio, è opportuno leggere l’autorevole parere espresso, in una bella intervista rilasciata a Repubblica, dall’argentino Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la pace nel 1980 e docente all’università di Buenos Aires.
Non ho vergogna a confessare che le mie lacrime si sono unite a quelle dei milioni di cittadini cubani che in questi giorni hanno tributato il giusto e doveroso omaggio all’uomo che restituì loro dignità, liberandoli dallo sfruttamento, dalla vergogna e dall’oppressione.
Nella domenica del saluto a Fidel, in Italia si consuma l’atto finale del referendum sulle riforme Costituzionali. Un’altra occasione che sui social ha visto dividersi tra il sì e il no l’intera popolazione nazionale. Non so fino a che punto tutti abbiano compreso la portata e l’importanza del voto, il suo significato, l’impatto che l’esito avrà sulla partecipazione democratica alla vita politica dei cittadini negli anni che verranno. Io voterò no perché, al di là di tutto, mi terrorizza l’idea che una Carta Costituzionale redatta da uomini come Pertini, Togliatti, Calamandrei, Nenni, Terracini, Moro, Parri e De Gasperi, possa essere manipolata da gente come Renzi, Boschi, Verdini e Alfano. E poco mi importa che voteranno no anche personaggi con i quali la mia storia personale e politica non ha nulla a che fare, perché da sempre esiste una regola che disciplina le diverse competenze tra maggioranza e opposizione: chi propone deve, per definizione, avere un progetto politico comune, allo schieramento di opposizione tale principio non è richiesto. E’ il sale della democrazia.
Pro o contro, buoni o cattivi, giusto o sbagliato, sì o no. Gli opposti schieramenti sui social continueranno, nonostante tutto, a fronteggiarsi, spesso e volentieri argomentando per “sentito dire”, rimanendo tutti rigidamente fermi sulle proprie posizioni.
“Solo gli sciocchi non hanno dubbi!”
“Ne sei proprio sicuro?”
“Non ho alcun dubbio!”