Made in Italy

C’è la crisi. C’è un lavoro da sudarsi ogni santo giorno, uno stipendio che a malapena è sufficiente per mandare avanti la baracca. Un rapporto familiare che si sbriciola giorno dopo giorno, un dialogo di coppia ormai inesistente. Perché la crisi avvolge tutto, e tutto rischia di finire in frantumi, producendo malessere esistenziale e difficoltà relazionali. Insomma, è la vita di ognuno di noi, chi più chi meno, ad essere portata sotto i riflettori, anzi, per essere più chiari, davanti all’obiettivo della telecamera.

Il terzo film di Luciano Ligabue, nei panni di regista, è un’autentica perla. Simile, per le tematiche trattate e il modo in cui esse vengono sviluppate, ai capolavori di Ken Loach. In “Made in Italy”, la cui trama ripercorre l’omonimo “concept disk”, è condensato il senso di vita comune e ordinaria che nel quotidiano scandisce i tempi di gran parte di noi, comuni mortali. Il senso di frustrazione per un lavoro poco appagante, il rischio latente di essere mandati a casa, le insoddisfazioni accumulate che vengono scaricate tra le mura domestiche, tra silenzi pesanti, omissioni, tradimenti e, per fortuna, le immancabili cazzate con gli amici. Sullo sfondo la provincia italiana, i suoi ritmi di vita sonnolenti ma al contempo carichi di emozioni individuali, un microcosmo fatto di personaggi stravaganti, di giorni spesso troppo uguali tra loro (cattive notizie comprese), di esistenze che si trascinano in un orizzonte temporale che non promette nulla di buono.

Passano gli anni per Riko, il protagonista della storia magistralmente interpretato da Stefano Accorsi, e con gli anni aumentano responsabilità e senso diffuso di fallimento per una quotidianità distante dai progetti cullati in gioventù. E quando, in un impeto di ribellione, Riko decide di partecipare ad una manifestazione di protesta contro quel meccanismo economico che gli sta distruggendo la vita mettendone a repentaglio anche quelle che apparivano come certezze inscalfibili (“vivo nella casa che mio nonno ha costruito, mio padre ha allargato, e che forse io sarò costretto a vendere”), si ritrova coinvolto negli scontri con la celere e, per tale motivo, finisce con la testa spaccata in un letto d’ospedale. Spettacolare è l’intervista rilasciata ai microfoni del giornalista che, attingendo a piene mani al trito canovaccio dei più consunti luoghi comuni, gli chiede di raccontare di come la Polizia abbia caricato i manifestanti, di come gli agenti abbiano provocato. “Siamo stati noi a caricare e a provocare”, risponde Riko, “e giusto per chiarire, io non parlo a nome di nessun gruppo organizzato: parlo come me stesso, come uno che guadagna 1.200 euro al mese e che ha un figlio che tra un po’ si iscriverà all’università”. Un pugno in pieno stomaco al mondo dell’informazione stereotipata.

La colonna sonora si sviluppa sulle note, intense e bellissime, dei brani dell’ultimo lavoro del Liga, le immagini regalano uno spaccato dell’Italia di provincia, le situazioni affondano nelle piccole e grandi tragedie che hanno il potere di immedesimare lo spettatore con la trama che la pellicola senza tregua sviluppa. Difficoltà generazionali, collettive e individuali, che fanno la somma e sintetizzano un’era fatta di incertezze, smarrimento, mancanza di punti di riferimento. Gli antidoti sono i pochi amici veri, il rapporto ricostruito in famiglia, la musica, la caparbietà nel lasciarsi alle spalle ogni ostacolo imprevisto o sospettato. Il prezzo da pagare è alto, perché a volte bisogna toccare il fondo, avvertire l’umiliazione della sconfitta sulla propria pelle, ritrovarsi sull’orlo del baratro e resistere alla tentazione di lanciarsi nel vuoto. Non esiste redenzione nella “giungla”, il sollievo è spesso complicato da raggiungere, le ferite provocano dolore perché “non è il male, né la botta, ma piuttosto il livido”, quelle cicatrici dell’anima che lasciano un segno indelebile e il ricordo perenne.

“Made in Italy” è un documento straordinario sul nostro tempo, sull’evoluzione delle nostre esistenze, sballottate e strattonate spesso attraverso frasi fatte che giustificano atti compiuti come il licenziamento di Riko, il quale anticipa il discorso che il suo capo sta per fargli quando si appresta a comunicargli il licenziamento.

Al termine della storia che tiene incollati davanti allo schermo, non c’è un lieto fine nel senso più appagante del termine; ogni soluzione, come nella vita vera, comporta sacrifici e rinunce. Alla fine della giostra, prevalgono i valori essenziali, quelli veri, che si sostanziano negli affetti familiari e nell’amicizia. Il terzo film di Ligabue è un film vero, come autentico dimostra di essere Luciano nel raccontare una storia credibile e ordinaria, priva di eroismi e densa di emozioni pulsanti, a tratti commovente, ironica e dura.

Da non perdere, assolutamente!!!