Il principe libero, film che narra la vita di Fabrizio De Andrè, merita di essere visto. Non solo dagli appassionati del grande cantautore genovese, ma anche da parte di chi, pur non essendo un assiduo ascoltatore delle canzoni di Faber, è appassionato in generale alle biografie di personaggi che hanno lasciato un’impronta tangibile nel proprio percorso di vita. E quella di De Andrè è stata davvero una vita degna di essere raccontata. Non perché fosse eroica e, in tal senso speciale, né per l’esaltazione di gesta memorabili che ne hanno scandito l’esistenza. Nulla di tutto ciò. Al contrario, il film mette in luce gli aspetti reali e umani di un personaggio che di eroico non aveva proprio nulla. E, proprio per questo motivo, la pellicola risulta vera, toccante, sincera. Spesso politicamente scorretta, come d’altronde erano i testi del grande Fabrizio.
Si parte dal rapimento in Sardegna di Faber e Dori Ghezzi, rimasti prigionieri dei propri carcerieri per quattro mesi. Ma prima di quel tragico evento, il giovane Fabrizio, tra mille debolezze e innumerevoli incertezze, era diventato nel frattempo uno dei più grandi cantautori dell’epoca, inaugurando senza saperlo la stagione della grande musica d’autore nel nostro Paese. Il film passa in rassegna gli anni della gioventù, il rapporto conflittuale ma, al contempo, intenso con il padre, l’abbandono dell’università, la fragilità che lo condusse all’alcolismo, le centinaia di sigarette fumate ogni giorno, l’esistenza dissennata divisa tra puttane e bottiglie. Tuttavia, si badi bene, non il solito luogo comune dell’artista tutto genio e sregolatezza, non esagerazioni voluttuarie o vezzi da ragazzo borghese viziato da notorietà, riconosciuto come paroliere straordinario e talento puro. L’alcol, nel caso di Fabrizio, è lo stesso che avvinghia nelle sue spire viziose tanti giovani smarriti dal senso della vita, sballottati da animi controversi e in conflitto con se stessi e con il mondo. Fragilità tipiche di chi non trova pace, e fatica a inquadrare la propria dimensione esistenziale. Nessuna concessione alla mondanità, la ritrosia a riconoscersi come talento, la timidezza nell’esibirsi dal vivo come interprete delle proprie creazioni poetiche. Perché proprio di poesia si tratta, originata da esperienze di vita vissuta, dal piccolo universo genovese che Faber frequentava: le case di tolleranza, le osterie del porto, i pochi amici veri che lo circondavano, da Paolo Villaggio (straordinaria la somiglianza dell’attore che lo interpreta) a Luigi Tenco, la cui morte fu fonte di profondo dolore e ispirazione (“Preghiera in gennaio”) per De Andrè.
La vita privata si fonde con quella del personaggio pubblico, il matrimonio riparatore con la prima moglie, dalla cui unione nasce Cristiano, poi la separazione e l’inizio della storia con Dori Ghezzi, la nascita della seconda figlia, il successo, i concerti, le contestazioni da parte di extraparlamentari e autonomi in un periodo di turbolenze sociali e sconvolgimenti culturali, la non accettazione da parte dei tanti benpensanti “antagonisti di professione” del suo cantare la povertà e l’emarginazione a beneficio di classe sociali privilegiate, in una deviazione culturale del concetto di lotta di classe, distorto e privo di sostanza.
L’animo irrequieto di Fabrizio è sempre alla ricerca di una dimensione propria, lontana dai riflettori e dal successo: da qui la scelta di trasferirsi in Sardegna, in un luogo sperduto tra le montagne di Tempio Pausania, per avviare l’attività di allevatore di mucche. E proprio lì, in quel paradiso naturale, avviene il sequestro di persona. Anche a distanza di anni da quella brutta e provante esperienza, Faber non accuserà mai i suoi sequestratori, verso i quali provava piuttosto pena e compassione. I suoi strali erano rivolti ai mandanti, insospettabili “colletti bianchi” colpevoli di aver pianificato il rapimento. Questo è stato Fabrizio De Andrè, il principe libero.
Il film dura tre ore, e sarà trasmesso in tv, su RaiUno, in due puntate il 13 e il 14 febbraio prossimi. Un consiglio: non perdetelo!