La politica di una volta

Ci sono state notti insonni, passate a preparare colla e ad attaccare manifesti elettorali. Erano gli anni novanta, e resisteva ancora quel retaggio positivo nel solco di una tradizione di rituali antichi del fare politica. Non esistevano i social, le persone si raggiungevano coi volantini e con i comizi nelle piazze. Ricordo di averne fatti tanti di comizi, in giro per la provincia di Cosenza. Anche davanti a poche anime, in luoghi sperduti dove il bar, la sezione del partito e la chiesa rappresentavano gli unici punti di aggregazione sociale e culturale. Quante avventure, quanti aneddoti. Una volta, in uno di quei paesini, arrivai in ritardo di circa mezz’ora e finii imbottigliato nella confusione della festa patronale, ma fui scortato fin sotto il palco da un’autovettura della polizia municipale, quasi alla stregua di un ministro della Repubblica. In un’altra circostanza, mentre parlavo, cedettero le assi del palchetto, e rimasi in precario equilibrio sulla struttura di alluminio, a gambe divaricate. Un’altra volta avevo appuntamento con il segretario della locale sezione del Partito in un paesino di montagna, era di sabato; arrivato a destinazione, non trovandolo chiesi notizie e mi fu risposto che il compagno era impegnato nella banca. “E’ sabato”, pensai, “le banche non lavorano di sabato…mah!”. In effetti chi mi aveva dato l’informazione, in stretto dialetto locale, non aveva scandito bene le parole, tanto è vero che, dopo circa una ventina di minuti, davanti ai miei occhi increduli sfilò la banda musicale del paese, e tra i vari musicisti comparve il segretario con cui dovevo incontrarmi, intento a percuotere il tamburo. “Banda” non “Banca”.

In diverse circostanze, nel pieno della nostra notte di colla e manifesti, fummo sottoposti a controlli da parte di Carabinieri e Polizia, generalità e documenti, mani sempre in vista come ci avevano insegnato nei seminari di Partito. Un’altra volta per poco non finì male, quando ci trovammo di fronte una squadraccia di estrema destra armata di coltelli e catene. Rischiammo di brutto e fu solo un caso fortuito che nessuno si fece male.

E’ stata una palestra di vita. Le sezioni erano luoghi di crescita e di formazione culturale e personale. Avevamo riferimenti alti e valori politici di spessore, ci animava una passione civile e un sincero desiderio di cambiamento. Sognavamo la rivoluzione, la fine delle ingiustizie, il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e dei ceti meno abbienti, una scuola gratuita e libera per gli studenti di ogni ordine e grado, un lavoro per i disoccupati. Vivevamo nel mito del Che e dell’orgoglio cubano. Si dormiva pochissimo, si leggeva tanto, ci si confrontava su tutto nelle interminabili assemblee dense di fumo e parole, proposte e discussioni. Ci si scontrava dialetticamente, ma senza ricorrere alle offese e alle minacce. Era bello per davvero. Sono trascorsi meno di trent’anni, ma sembra passato un secolo. Sit-in, manifestazioni, occupazioni, striscioni, slogan, battaglie civili, megafoni, volantini, cortei. Genova e il G8, i pullman per Roma in occasione dei vari scioperi, i congressi nazionali del Partito. Si potrebbero riempire le pagine di un romanzo, descrivendo situazioni, momenti, delusioni, sconfitte, successi, riconoscimenti e soddisfazioni. Basterebbe delineare la fisionomia e le caratteristiche di tutti i protagonisti locali di quell’epoca per fornire un quadro romantico di come l’azione politica, secondo le prerogative individuali, veniva portata avanti con energia e impegno. Alcuni di quegli uomini non ci sono più, altri sognano ancora, qualcuno ha perso ogni speranza. Tutti siamo stati travolti dal nuovo schifo che avanza.

Sono cambiati i tempi ed è cambiato il mondo. In peggio. Restano i ricordi da tramandare, ben sapendo che chi ascolta certe narrazioni, non avendo vissuto quell’epoca in prima persona, penserà a storie inventate o, nella migliore delle ipotesi, a vicende arricchite di particolari e romanzate per l’occasione. Invece è tutto vero, come le rughe che ci attraversano la fronte, attribuendoci una maturità ancora tutta da conquistare, come i capelli che non abbiamo più, come la nostalgia che appanna i nostri sguardi, come la convinzione che rifaremmo tutto daccapo. Anche gli errori commessi. Anzi, quelli prima di tutto.