Trilogia della città di K. – Agota Kristof

Su consiglio di un amico mi sono immerso qualche settimana fa nella lettura del libro “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof, arrivando a chiudere l’ultima pagina nella serata di ieri. Dopo una prima fase di iniziale scetticismo, dovuta per lo più al fatto che, soprattutto d’estate, preferisco lasciarmi trasportare dal classico noir, man mano che la storia andava lievitando devo ammettere di essermi ricreduto sull’impalcatura complessiva del meccanismo narrativo ritrovandomi pienamente coinvolto nella complessa trama.

Il volume (edito da Einaudi) si compone di tre distinti racconti collegati tra loro (Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna), pubblicati separatamente verso la fine degli anni ‘80 e gli inizi del ‘90 del secolo scorso. L’autrice, scomparsa nel 2011, era di nazionalità ungherese come peraltro si riesce ad evincere dalla trama dei suoi scritti, densi di quella tragicità tipica delle novelle ambientate nei paesi dell’Est durante il periodo della Grande Guerra.

Come già anticipato, non si tratta di un giallo, bensì di un romanzo articolato e profondo che lascia interdetto il lettore sin dalle prime pagine, trascinandolo in una spirale di indefinibile complessità.

A scanso di equivoci, è meglio precisarlo subito: il libro è molto triste, angosciante, complicato non per come è scritto ma piuttosto per la trama elaborata e a tratti contorta che ne caratterizza lo sviluppo; lo stile di prosa è asciutto, diretto, essenziale. La terminologia arriva sempre dritta al punto, senza sconti o concessioni. E’ un romanzo strano, particolare, in alcuni passaggi appare per certi versi anche inverosimile, salvo fare emergere in tutta la sua compiuta tragicità il dramma profondo e coinvolgente dei protagonisti i cui destini si accavallano mentre la guerra, come scenario di fondo, compie in modo inesorabile il proprio macabro rituale.  Il lettore si rende immediatamente conto di trovarsi di fronte ad uno stile narrativo inedito e inusuale: pur essendo molto dettagliata e evocativa la descrizione di situazioni e luoghi, non viene mai citato il nome del Paese e delle città dove sono ambientati i fatti, sebbene dalle vicende narrate risulta facilmente intuibile che il tutto si dipana in un qualche territorio dell’Europa dell’Est in tempo di conflitto bellico.

Per tutta la prima parte del racconto non si conoscono nemmeno i nomi dei protagonisti, due bambini affidati a causa dell’incombente guerra alle “cure” della nonna materna in un piccolo paesino di confine, una figura quest’ultima controversa e del tutto non convenzionale. Il linguaggio crudo taglia come una lama affilata le vite e le vicende dei protagonisti, ne attraversa il carattere con determinata ostinazione, non si esime dal raccontare e descrivere eventi scomodi ed eticamente inaccettabili, affondando la penna nel diffuso degrado morale e fisico provocato dalla guerra e nella povertà materiale e intellettuale che ne scaturisce.

Tutto è buio, senza speranza, alla deriva di un mondo che non offre più nessun tipo di riferimento morale e spirituale. Non esiste futuro, non esiste prospettiva, non esiste riscatto. Il lettore ne risulta travolto senza via di scampo.

Sulle prime ci si convince di qualcosa che poi sembra di colpo svanire nella seconda parte del racconto, e che nello sviluppo del romanzo trova conferme e smentite proponendo apparenti versioni alternative e suggestioni profonde, confondendo e alienando. La Storia, intesa nell’accezione di eventi globali e ineludibili, travolge tutto e tutti, contadini, ubriaconi, artigiani, intere famiglie, bambini, soldati, figure allineate al regime, deportati e condannati a morte. Il filo conduttore è la tristezza e l’angoscia che avvinghia il lettore senza dargli tregua, senza permettere che ci si illuda neppure per un istante che un qualche eventuale lieto fine possa trionfare a parziale ricompensa di torti subiti e di vite distrutte o segnate per l’eternità.

Il finale, ossia la terza parte del racconto, sorprende e affligge, delineando situazioni e vicende che fanno drammaticamente chiarezza su conflitti, rapporti, solitudini mascherate e complicità prima immaginate e poi cinicamente negate.

Dal mio punto di vista, il libro è un piccolo capolavoro che si discosta dai soliti cliché e che disegna nello sviluppo della trama traiettorie introspettive totalizzanti. Con il giusto approccio, ben sapendo di imbattersi in una lettura né conciliante e né leggera (dove per leggerezza si intenda il complesso degli argomenti trattati), mi sento vivamente di consigliarlo. Il nichilismo che pervade le quasi 400 pagine e che dirompe fino alla distruzione, si inquadra in un contesto storico e sociologico che ha segnato attraverso la guerra le vite di tanta parte di umanità distante da un’epoca (quella nostra contemporanea di cittadini occidentali) dove la quotidianità ha smarrito il significato autentico del termine sofferenza.

Un racconto che induce alla riflessione e che non si può non leggere.