Scomode trasposizioni

A volte mi capita di pensare chi sarei stato se non fossi stato io. O cosa sarei stato. Cioè, se non fossi nato Giulio Bruno, chi sarei o cosa sarei a quest’ora? Visto che, da non credente, non ho motivo di interrogarmi sul dopo né sul prima, mi perdo in taluni momenti nell’immaginare cosa sarei potuto essere se, per caso, fossi venuto al mondo un giorno prima o un giorno dopo rispetto alla mia data di nascita. Non per nulla ho utilizzato la parola “caso” e non destino, perché la prima esprime appunto casualità, mentre la seconda sottende a qualcosa di preordinato al quale, per intima convinzione, non mi accosto.

Insomma, sarei potuto nascere in Africa ed essere uno dei tanti immigrati che rischiano la vita (e spesso ci lasciano la pelle) nell’attraversare su un qualche derelitto barcone il canale di Sicilia. O sarei potuto nascere negli Stati Uniti ed essere un fervente sostenitore di Donald Trump. O, magari, sarei nato in Sudamerica diventando un fuoriclasse del pallone. E, chi può dirlo, sarei anche potuto nascere in Siria, e a quest’ora essere morto sotto i bombardamenti. O in Cina, in qualche sperduta campagna a ridosso della Grande Muraglia. E se fossi nato in altra epoca? Durante la Rivoluzione Francese, o il dominio nazista, o in Russia giusto cent’anni fa in piena Rivoluzione d’Ottobre. O, addirittura, nel Medioevo. Ma in tutte queste variabili possibili, che ruolo avrei ricoperto? Sarei stato uno scrittore? Uno straccione? Un delinquente? Un soldato? Un assassino? Un nullafacente? Un politico? Un prete? Una donna? Un artigiano? Un poeta?

Se fossi nato in Italia, poco prima degli anni ’80, sarei anche potuto nascere Dj Fabo. E come lui, avrei lottato con tutte le mie forze pur di ottenere il sacrosanto diritto di non soffrire. Il diritto di poter decidere di porre fine alla mia esistenza se questa fosse stata drammaticamente offesa dalle controverse vicende della vita.

Perché, prima di pontificare su tragedie e situazioni che riguardano le storie degli altri, bisognerebbe provare a compiere il non semplice sforzo di immedesimarsi. Tradotto: “mettersi nelle scarpe degli altri”. Uno dei nostri hobbies preferiti è quello di pronunciarci su quanto accade in giro, nel condominio, nel quartiere, nel Paese, nel mondo. Il limite di questa appassionante attività sta nel fatto che la esercitiamo sempre da esterni non direttamente coinvolti né coinvolgibili, assumendo l’atteggiamento più socialmente accettato e quindi incline alla versione generalmente più edificante e borghese, in linea con i costumi e i comportamenti del buon padre di famiglia. Ci scandalizziamo se veniamo a sapere che il vicino tradisce la moglie, ci sorprendiamo alla notizia che il nostro collega sono anni che non rivolge la parola al fratello; qualcuno si offende per chi decide di abortire, qualcun altro per chi divorzia, tanti si indignano per chi avalla le ragioni di un povero ragazzo costretto a scegliere di morire pur di smettere di sopravvivere indegnamente. Tutto molto educativo e edificante, purtroppo anche molto facile, se nel dare a parole il buon esempio o il consiglio saggio, ci si scorda che tali “esecrabili” situazioni rientrano nella percentuale possibile di eventi che un giorno potrebbero capitare anche a noi. In altre parole fanno parte della vita, piaccia o no. E non c’è cosa peggiore che esprimersi sulla dimensione della vita degli altri senza saperne nulla. Senza interrogarsi se una data scelta è stata il frutto di decisioni dolorose, di drammi personali e familiari, se le conseguenze scaturite sono costate sacrificio, lacrime, rinunce.

Troviamo comodo sentenziare e autoassolverci, schierandoci sempre dalla parte dei buoni, di chi certe cose mai, di coloro che per scelta divina sono al di sopra delle parti. Di chi non contempla che è solo per caso o per fortuna, raramente per scelta, che certe vicissitudini si limitano a sfiorarci o si verificano distanti da noi. Ebbene, per formazione culturale, io sto con Dj Fabo e con la sua scelta per molti versi antipopolare, sto con le donne che si trovano costrette o semplicemente decidono di abortire, sto con tutti quelli che agiscono in nome del sacro e inviolabile principio dell’autodeterminazione. E a chi è capace di dare sempre buoni consigli e proporre soluzioni ideali, rispondo che è molto più gratificante sbagliare di testa propria. Sempre che si tratti di errori, e non piuttosto di punti di vista differenti. Etica e morale rappresentano, infatti, troppo spesso il paravento per giustificare modi di pensare retrivi e conservatori, ma nella sostanza disvelano la cartina di tornasole utile a denudare carenze culturali e superficiali approssimazioni su argomenti verso i quali la scorciatoia risulta essere quella di appellarsi alla coscienza individuale. Come se la coscienza non fosse piuttosto il portato di esperienze, studi, conoscenza e ricerca in continua e permanente evoluzione, spesso proprio con l’obiettivo di mettere in discussione quanto da noi stessi inizialmente considerato ineluttabile.

Ma, si sa, siamo sempre pronti a celebrare facendo attenzione a rimanere in superficie, guardandoci bene dallo spingerci troppo in basso per timore di affogare nel mare dell’ipocrisia. E dunque, il rametto di mimosa per la festa della donna non manca mai, poi però quando si tratta di accettare il sacrosanto diritto all’autodeterminazione (non solo in tema di aborto), i tanti “mimosisti” in servizio effettivo permanente (ma solo l’8 di marzo…) impongono la propria visione patriarcale e oscurantista.

Non è facile scardinare convinzioni radicate, abitudini di vita consolidate, accettare e rispettare scelte di rottura che vanno in controtendenza con le tradizioni imposte dalle generazioni passate. La donna viene ancora oggi considerata come qualcosa di proprietà esclusiva del maschio: è l’uomo che decide, dispone, esercita il controllo, pianifica le attività e ne stabilisce gli orientamenti professionali.

Al pari della CIA, che utilizza telefonini e televisori per sorvegliare, potrebbe tornare utile attrezzare frigoriferi, asciugacapelli e, perché no, anche i tostapane, per consentire all’uomo che “non deve chiedere mai” di monitorare la propria dimensione domestica. La domotica al servizio del maschio moderno.

“Donne, è arrivato l’arrotino!”. Attente alle lame.