C’era una volta…

C’era una volta un mondo declinato in bianco e nero. Un mondo dove se dovevi telefonare e ti trovavi per strada, utilizzavi le cabine telefoniche a gettoni della Sip. Dove il massimo della tecnologia era dato dalle calcolatrici elettroniche che costavano un occhio della testa. Le stesse che adesso i cinesi vendono a pochi euro. Nessun computer, nessun tablet, nessun portatile, nessun telefonino cellulare. Quel mondo dove tutto appariva più semplice pur tra mille difficoltà. Era chiaro da quale parte stavi, con chi, contro di chi e cosa volevi fare.

Quarant’anni fa avevo sette anni. In quel mondo antico e anacronistico Mago Zurlì, al secolo Cino Tortorella, conduceva lo Zecchino d’Oro. E Topo Gigio alimentava di serenità e innocenza i nostri sogni ingenui, attraverso i bagliori in chiaro-scuro che rischiaravano il divano davanti alla tv. Ricordo bene le immagini trasmesse da un vecchio televisore in bianco e nero, prima che a casa dei miei genitori arrivasse come un’astronave il Seleco a colori. E ricordo pure i quarantacinque giri in vinile, ascoltati nel mangiadischi verde, che riproducevano vecchie canzoni per bambini diventate, poi, col passare degli anni, dei veri e propri cult. “La casetta in Canadà” è del 1957, lo stesso anno dei Trattati Internazionali di Roma che sancirono l’istituzione della Comunità Economica Europea, di cui oggi ricorre il sessantesimo anniversario in una capitale d’Italia blindata dal timore di attacchi terroristici. Londra pochi giorni fa, prima ancora Berlino, Nizza, Bruxelles e Parigi. Storie di sangue e violenza, crisi di civiltà e miserie diffuse a distanza di sessant’anni dal primo vagito d’Europa, in un continente terrorizzato dall’estremismo islamico che in poco più di mezzo secolo si è incartato tra Trattati di Maastricht, rigide compatibilità finanziarie occultate dal paravento della moneta unica, regole non negoziabili gestite e imposte dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. Epifenomeno, o danno collaterale, di un progetto deflagrato con la medesima irruenza di un fuoco che lentamente ma inesorabilmente divampa e distrugge tutto. Avevo il quarantacinque giri della “Casetta in Canadà” piena di vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, quella che un giorno venne incendiata da Pinco Panco. Molti anni dopo casa dei miei si incendiò per davvero, a causa dello scoppio di un modernissimo tv a colori, ma questa è un’altra storia. Nella mia playlist del tempo, rivestiva un ruolo centrale il vinile dei “Quarantaquattro gatti” in fila per sei col resto di due, la cui filastrocca matematica tormentava la mia poca dimestichezza con moltiplicazioni e divisioni: le tabelline non erano il mio forte, e non lo sarebbero mai state. Tuttavia, dell’infanzia che fu, la vera suggestione era incarnata da “Popoff”, il cosacco dello Zar che a quaranta sotto zero marciava verso il fiume Don.

Quaranta gradi sotto zero, quarant’anni fa. Sembra ieri.

A quel tempo, Alfredo Reichlin era il braccio destro di Enrico Berlinguer, la politica italiana a sinistra era sinonimo di impegno sociale, desiderio di trasformazione, studio e elaborazione, teoria unita a prassi, rispetto e orgoglio di appartenenza. Esattamente come adesso… Di quegli anni bicromatici conservo sensazioni forti, proprie di un’epoca caratterizzata da una società in fermento e in continua evoluzione antropologica e sociale. Il mondo era meno conosciuto di adesso, più misterioso e per questo più affascinante. Frequentato da uomini la cui valenza storica ed il cui spessore politico e culturale non è neppure lontanamente paragonabile all’oggi.

Poi arrivò il colore sui nostri schermi, la diffusione delle prime televisioni in technicolor, immagini cromatiche tutt’altro che perfette, sgranate, dai colori troppo accesi o troppo sbiaditi. L’epopea di Tomas Miliam, in arte “er Monnezza”, risale a quei tempi. Ma quelle imperfezioni, quei difetti nei colori e nel suono come nel montaggio delle immagini, rendevano il tutto più autentico, più vero. Esattamente come nella vita, dove nulla è privo di increspature, di intoppi, dove quasi mai tutto fila liscio senza sbavature o tonalità più o meno diffuse di grigio. Sarà un caso che il vintage affascina più dell’ultratecnologico? Come si spiega che, nell’ultimo anno, la vendita dei dischi in vinile ha fatto registrare una crescita commerciale del 56%, confermando e addirittura migliorando il trend in ascesa dell’ultimo decennio? In che modo può essere decifrata questa voglia di passato? Forse perché, come diceva Proust, i veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti, o come affermava Borges, il passato è la sostanza di cui è fatto il tempo.